di Giovanni DI TRAPANI

USA e Cina: escalation tariffaria e impatto globale (2024-2025)

Le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina hanno visto un marcato peggioramento nel biennio 2024-2025, segnato da una nuova escalation di dazi doganali e tensioni protezionistiche. Già a partire dalla “guerra commerciale” del 2018, Washington e Pechino avevano imposto reciproche barriere tariffarie su centinaia di miliardi di dollari di beni scambiati, molte delle quali sono rimaste in vigore negli anni successivi. Tuttavia, negli ultimi mesi questa contrapposizione ha conosciuto un ulteriore salto di intensità, con implicazioni preoccupanti per l’economia globale.

La nuova ondata di dazi USA: con un ordine esecutivo del 2 aprile 2025, il governo statunitense ha dichiarato l’emergenza economica nazionale e introdotto dazi generalizzati sulle importazioni da praticamente tutti i paesi. In base a questo provvedimento – giustificato dall’amministrazione come necessario per ridurre il massiccio deficit commerciale americano – gli USA hanno imposto un dazio addizionale del 10% su tutte le merci importate a partire dal 5 aprile Inoltre, sono state previste aliquote tariffarie differenziate per origine: ad esempio, i prodotti provenienti dall’Unione Europea sono soggetti a un dazio del 20%, mentre quelli dalla Cina subiscono un prelievo ben più gravoso, pari al 34%. Queste tariffe “reciproche” più elevate – così definite da Washington – colpiscono in misura maggiore i paesi con cui gli Stati Uniti registrano i maggiori disavanzi commerciali (295 miliardi di dollari nel caso della Cina, 236 miliardi con l’UE nel 2024). Per attuare tali misure senza passare dal Congresso, la Casa Bianca ha fatto ricorso ai poteri straordinari previsti dall’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) del 1977, dichiarando che le pratiche commerciali estere costituiscono una minaccia alla sicurezza economica nazionale.

Va rilevato che alcune categorie merceologiche sono state esentate da questi nuovi dazi USA per ragioni strategiche. In particolare, non si applicano sovrattasse aggiuntive su prodotti già colpiti da precedenti provvedimenti di “sicurezza nazionale” – come l’acciaio e l’alluminio (già soggetti a dazi del 25%) o le automobili e componenti automotive (ora con dazio fisso al 25%) – né su una serie di beni critici elencati nell’Annex II dell’ordine esecutivo. Tra questi figurano farmaci, semiconduttori, alcune materie prime strategiche (ad esempio minerali rari, legname) e prodotti energetici non disponibili internamente, il cui approvvigionamento viene tutelato. Complessivamente circa un terzo delle importazioni USA rientra in tali esenzioni. Tuttavia, le autorità americane hanno esplicitamente mantenuto aperta la possibilità di estendere in futuro le barriere anche a questi settori: l’ordine esecutivo menziona possibili ulteriori indagini ai sensi della Section 232 del Trade Expansion Act del 1962 (norma che consente dazi per motivi di sicurezza nazionale) sui beni oggi esentati. Ciò indica la determinazione di Washington a perseguire un approccio protezionistico a largo raggio, potenzialmente espandendo il campo dei prodotti colpiti.

Ritorsione cinese e escalation reciproca: la reazione di Pechino a questa nuova ondata di protezionismo non si è fatta attendere. Dopo una prima risposta “simmetrica” – con l’annuncio di un dazio aggiuntivo del 34% su tutte le importazioni di merci statunitensi – la Cina ha adottato misure ancora più drastiche in seguito all’inasprimento americano. L’11 aprile 2025, il Ministero del Commercio cinese ha comunicato l’innalzamento dei dazi punitivi all’125% su tutti i prodotti importati dagli Stati Uniti. Si tratta di un livello tariffario eccezionalmente elevato, che di fatto impedisce la convenienza economica di qualunque flusso commerciale dagli USA verso la Cina. La stessa dichiarazione ufficiale di Pechino ha riconosciuto che a tali livelli “non vi è accettazione di mercato per i beni statunitensi” in Cina, segnalando come l’obiettivo sia esplicitamente ritorsivo. Il governo cinese ha inoltre affermato di essere pronto a “combattere fino alla fine” in questa guerra dei dazi, lasciando intendere di avere ulteriori contromisure a disposizione (ad esempio restrizioni non tariffarie) qualora gli Stati Uniti continuassero a inasprire le barriere. Parallelamente ai dazi, infatti, Pechino ha iniziato ad adottare strumenti extra-commerciali per colpire gli interessi americani: ad esempio, sono state annunciate restrizioni sull’export cinese di terre rare e altri minerali critici essenziali per l’industria tecnologica occidentale, in risposta alle mosse USA. Inoltre, la Cina ha presumibilmente intensificato i controlli e le limitazioni su aziende e prodotti statunitensi operanti sul suo mercato interno, rendendo ancor più difficile l’accesso per le imprese americane.

Questa escalation reciproca rappresenta un deterioramento senza precedenti nei rapporti economici tra le due maggiori potenze mondiali. Basti pensare che durante la precedente fase di conflitto commerciale (2018-2019) le tariffe punitive si erano fermate al 25% sui beni cinesi negli USA (e intorno a livelli analoghi sui beni americani in Cina), mentre ora si parla di dazi cinque volte superiori. Non a caso, il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato un monito esplicito: «non ci sono vincitori in una guerra dei dazi», ha dichiarato Xi, aggiungendo che «andare contro le regole del mondo finirà per isolare» chi lo fa. Durante un incontro a Pechino con il Primo Ministro spagnolo, Xi ha invitato l’Unione Europea a collaborare con la Cina per resistere al “bullismo” commerciale, in un apparente tentativo di trovare sponde alternative e rompere l’isolamento cui Washington vorrebbe costringere Pechino.

Settori coinvolti: l’impatto di queste misure si distribuisce in maniera diversa tra i settori economici. Dal lato statunitense, i nuovi dazi colpiscono una vasta gamma di prodotti manifatturieri e agroalimentari importati dalla Cina e dal resto del mondo: elettronica di consumo, macchinari, apparecchi elettrici, tessili, mobili, nonché alimenti e bevande, sono tutti comparti soggetti al prelievo addizionale del 10% (o superiore a seconda del paese di origine). Al contrario, come visto, beni considerati strategici per l’economia e la sicurezza nazionale USA (acciaio, alluminio, componenti per autoveicoli, microchip, farmaci, ecc.) sono stati in parte esclusi o già regolati da dazi preesistenti. Ciò significa che l’onere delle tariffe si concentra soprattutto sui prodotti finali e beni di consumo importati, con l’intento dichiarato di incentivare la sostituzione con produzione domestica. Sul fronte opposto, la Cina ha mirato le proprie ritorsioni verso i settori dove può arrecare maggior danno economico e politico agli Stati Uniti. In particolare, sono state colpite le esportazioni agricole americane (soia, mais, carni, latticini) – altamente dipendenti dal mercato cinese – e beni industriali iconici del made in USA, come alcuni prodotti dell’automotive, dell’aerospazio e dell’energia. Già durante la prima fase della disputa commerciale, Pechino aveva ridotto drasticamente gli acquisti di prodotti agricoli statunitensi, rivolgendosi verso fornitori alternativi; ora tale strategia viene amplificata dalle nuove tariffe al 125%, che praticamente escludono dal mercato cinese molti fornitori americani a vantaggio di concorrenti di altri paesi. Allo stesso tempo, la Cina cerca di colpire settori strategici statunitensi con misure mirate: le restrizioni sull’export di terre rare sono un esempio, mirato a mettere in difficoltà l’industria high-tech e la produzione di veicoli elettrici negli USA, dato che le imprese americane dipendono in larga misura da forniture cinesi di questi materiali.

Reazioni internazionali: l’acuirsi dello scontro commerciale tra Washington e Pechino ha suscitato forti preoccupazioni a livello globale e reazioni ufficiali sia da parte dei paesi alleati che delle istituzioni internazionali. In Europa, la risposta è stata caratterizzata da toni critici ma anche da prudenza. La Presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen ha definito i dazi americani “un duro colpo per le aziende e i consumatori di tutto il mondo”, ribadendo che l’Europa è pronta a difendere i propri interessi e valori ma anche aperta a impegnarsi in negoziati per evitare un’escalation fuori controllo. Anche il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni ha preso posizione, giudicando l’introduzione dei dazi USA verso l’Europa una misura «sbagliata e che non conviene a nessuna delle parti». Meloni ha auspicato ogni sforzo diplomatico per «scongiurare una guerra commerciale che inevitabilmente indebolirebbe l’Occidente a favore di altri attori globali». Queste dichiarazioni riflettono la volontà europea di evitare di essere trascinata in un conflitto economico distruttivo, cercando piuttosto soluzioni condivise: non a caso, nei giorni successivi Bruxelles ha intensificato i contatti sia con Washington che con Pechino per trovare margini di dialogo. L’amministrazione Trump, da parte sua, ha mostrato segnali ambivalenti – intransigenza pubblica alternata a qualche apertura tattica. Ad esempio, ha concesso una sospensione temporanea di 90 giorni dell’applicazione dei dazi più elevati per molti paesi alleati (lasciando per ora un dazio “base” del 10%), proprio allo scopo di aprire negoziati ed evitare ritorsioni immediate. Questa tregua, seppur fragile, ha escluso però esplicitamente la Cina, verso cui invece gli Stati Uniti hanno rilanciato con aumenti tariffari consecutivi fino al livello proibitivo del 145%.

Le organizzazioni economiche internazionali hanno lanciato l’allarme sulle possibili ricadute sistemiche di questa contrapposizione. Il direttore generale del WTO ha avvertito che il ritorno a politiche commerciali così restrittive rappresenta un serio rischio per il sistema multilaterale degli scambi. In un’analisi diffusa il 9 aprile 2025, il WTO stima che le tensioni tariffarie tra Stati Uniti e Cina potrebbero ridurre gli scambi bilaterali di beni fino a -80% rispetto ai livelli attesi. In pratica, gran parte del flusso commerciale tra le due maggiori economie mondiali verrebbe annullato, con effetti a catena. Secondo la stessa nota, una divisione dell’economia globale in due blocchi contrapposti – scenario non irrealistico se la disputa dovesse continuare ad aggravarsi – potrebbe causare una contrazione di quasi il 7% del PIL mondiale nel lungo termine. Anche il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE hanno manifestato preoccupazione: nelle loro previsioni aggiornate di primavera 2025 hanno rivisto al ribasso gli indicatori di crescita, citando esplicitamente il riaccendersi del protezionismo come fattore di rischio. L’OCSE, ad esempio, ha tagliato la previsione di crescita globale per il 2025 dal 3,3% al 3,1%, evidenziando che l’incertezza e i maggiori costi derivanti dai dazi peseranno sugli investimenti e sulla fiducia delle imprese. L’organizzazione parigina ha avvertito che la proliferazione di barriere tariffarie potrebbe alimentare ulteriori pressioni inflazionistiche, costringendo le banche centrali a mantenere più a lungo politiche monetarie restrittive nonostante il rallentamento congiunturale. Un altro studio OCSE ha simulato gli effetti di uno shock commerciale generalizzato a partire da aprile 2025: ne risulterebbe un marcato freno alla crescita statunitense (solo +1,6% nel 2025, contro il +2,1% atteso prima) e una vera recessione in paesi fortemente integrati con l’economia USA come il Messico (-1,3% nel 2025, a fronte di una previsione pre-crisi di +1,6%). In compenso, la Cina vedrebbe paradossalmente una tenuta migliore del previsto, grazie anche a politiche di stimolo interno e al riallocamento dei suoi scambi verso altri partner, mentre l’Eurozona potrebbe inizialmente evitare un impatto devastante diretto, avendo “per ora minore esposizione diretta” alla guerra commerciale rispetto ad altri (nel 2025 l’OCSE stima ancora una crescita dell’Eurozona attorno all’1%, sebbene in calo rispetto alle previsioni precedenti). In ogni caso, lo scenario generale delineato dagli organismi internazionali è chiaro: una spirale di misure protezionistiche e contromisure rischia di tradursi in un gioco a somma negativa per l’economia mondiale, colpendo la fiducia, gli investimenti e la stabilità dei mercati.

Implicazioni per l’Europa e l’Italia: nel contesto di questa rinnovata contrapposizione USA-Cina, l’Europa si trova in una posizione di mezzo, potenzialmente vulnerabile su più fronti. Da un lato, le esportazioni europee verso gli Stati Uniti – pilastro per molte industrie del continente – sono minacciate dai nuovi dazi americani. Come evidenziato, Washington ha inizialmente inserito l’UE tra i bersagli delle sue tariffe “reciproche” (20% aggiuntivo sulle importazioni dall’Europa), anche se successivamente ha mostrato apertura a una pausa negoziale. I settori manifatturieri europei di punta, in particolare l’automotive tedesco e i macchinari industriali e beni di lusso made in Italy, rischiano pesanti contraccolpi se le barriere USA dovessero entrare pienamente in vigore. Studi recenti hanno stimato che il solo effetto dei dazi USA (senza contromisure) potrebbe ridurre il PIL dell’Unione Europea di circa -0,4% nel breve periodo, un impatto doppio rispetto a quello sull’economia americana, dato il maggior peso dell’export per l’Europa. D’altro canto, Bruxelles sa che una ritorsione equivalente aggraverebbe ulteriormente il danno: simulazioni del Kiel Institute suggeriscono che rispondere ai dazi USA con analoghe tariffe europee potrebbe portare la contrazione del PIL UE fino a circa -0,5%, contro un -0,3% per quello statunitense. Consapevole di questa asimmetria, l’UE ha sinora evitato escalation immediate, preferendo la via diplomatica. La linea ufficiale – ribadita anche dalle dichiarazioni italiane citate – è che rispondere con altri dazi non sarebbe una scelta vantaggiosa, e che occorre invece perseguire un dialogo costruttivo con Washington per ottenere esenzioni o compensazioni settoriali.

Nel frattempo, l’inasprimento dei rapporti USA-Cina ha effetti indiretti di ampia portata sull’Europa. Il rallentamento della crescita globale e il possibile riassetto delle catene del valore internazionale potrebbero colpire le industrie europee sia sul fronte della domanda estera sia su quello dell’offerta di input. Molte filiere produttive del continente dipendono da componenti cinesi: se le tensioni dovessero disturbare la normalità dei flussi dalla Cina (ad esempio attraverso restrizioni cinesi su esportazioni di materie critiche o attraverso una recessione in Cina che riduca la produzione), le imprese manifatturiere europee ne risentirebbero. Al contempo, la forte contrazione dell’export americano verso la Cina può aprire spazi di mercato per i concorrenti europei in alcuni settori. Pechino, trovandosi di fronte al blocco dei prodotti USA, potrebbe incrementare gli acquisti di beni industriali, agroalimentari e servizi dall’Europa per colmare il vuoto. Ad esempio, nel settore aeronautico e agricolo la Cina sta già riorientando i propri ordini verso fornitori UE (si pensi agli aerei Airbus in sostituzione dei Boeing americani, o all’import di vino e prodotti alimentari europei al posto di quelli statunitensi colpiti da dazi). Questa ridefinizione dei flussi commerciali potrebbe in parte avvantaggiare alcune imprese europee nel breve termine, ma presenta anche rischi geopolitici: un eventuale avvicinamento economico UE-Cina per opportunismo commerciale potrebbe incrinare la relazione transatlantica con gli Stati Uniti. Non a caso, Xi Jinping ha esplicitamente corteggiato l’Europa invitandola a una cooperazione più stretta con la Cina contro il protezionismo americano. Si tratta però di un invito insidioso, poiché l’UE condivide con gli USA valori e alleanze strategiche che vanno oltre il mero commercio.

Per l’Italia, la situazione merita particolare attenzione. Il nostro Paese vanta un significativo attivo commerciale sia verso gli Stati Uniti (oltre 50-60 miliardi di euro di export annuale negli ultimi anni) sia verso la Cina (circa 16-18 miliardi di export). Settori chiave del made in Italy – come la meccanica strumentale, la moda lusso e l’agroalimentare – sono fortemente dipendenti dalla domanda estera e potrebbero subire ripercussioni negative su entrambi i mercati in caso di ulteriore deterioramento del contesto globale. Ad esempio, un incremento tariffario permanente negli USA ridurrebbe la competitività del vino e dei prodotti alimentari italiani oltreoceano (dove l’Italia è tra i principali fornitori); contestualmente, la frenata dell’economia cinese o eventuali discriminazioni cinesi verso i prodotti occidentali potrebbero limitare le opportunità in Cina per i macchinari e la moda italiana. Il rischio sistemico per l’Italia, in sintesi, è quello di trovarsi penalizzata su due fronti contrapposti senza poter beneficiare pienamente di alcun “dividendo” della situazione. Non va dimenticato poi l’effetto indiretto sul clima economico: maggiore incertezza e turbolenza nei mercati globali tendono a raffreddare gli investimenti e colpire in particolare un’economia manifatturiera aperta come la nostra, integrata nelle catene di fornitura internazionali.

Di fronte a queste sfide, l’Europa e l’Italia stanno enfatizzando la necessità di un ritorno al multilateralismo e al rispetto delle regole condivise del commercio mondiale. L’UE ha già annunciato il ricorso all’Organizzazione Mondiale del Commercio per contestare la legittimità dei dazi statunitensi, pur sapendo che il meccanismo di risoluzione delle dispute del WTO è attualmente indebolito. Allo stesso tempo, prosegue il dialogo diplomatico: la visita di leader europei a Pechino e i contatti ad alto livello con Washington mirano a disinnescare la spirale protezionistica. In prospettiva, si discute di possibili intese negoziate: ad esempio, nuovi accordi bilaterali USA-UE per ridurre alcune tariffe (come proposto da alcuni esponenti europei), oppure un riesame complessivo dei rapporti con la Cina basato sul principio del “de-risking” (riduzione dei rischi eccessivi nelle filiere strategiche senza però arrivare a un completo decoupling commerciale). L’obiettivo condiviso è evitare che la situazione degeneri in una guerra commerciale generalizzata come negli anni ’30, scenario che – come la storia insegna – finirebbe per danneggiare tutti.

L’evoluzione delle relazioni economiche USA-Cina nel 2024-2025 conferma il ritorno di un protezionismo aggressivo sulla scena mondiale, con gli Stati Uniti decisi a usare i dazi come leva di pressione economica e geopolitica, e la Cina altrettanto determinata a rispondere colpo su colpo. Le tariffe imposte e minacciate (dal 34% americano sui beni cinesi fino al 125% cinese sui beni americani) stanno già ridisegnando i flussi di commercio internazionale, alimentando incertezza e tensioni. L’Europa – pur non essendo il bersaglio principale di queste misure – ne risente e ne teme le conseguenze: il costo economico stimato per l’UE non è trascurabile e la posizione geografica e politica del continente lo espongono a contraccolpi sia diretti (dazi USA sulle importazioni europee) sia indiretti (rallentamento globale, pressioni per schierarsi). Per l’Italia, in particolare, la sfida consiste nel tutelare i propri interessi industriali ed export in un contesto sempre più volatile, cercando al contempo di sostenere un’azione europea unita e coerente. Come evidenziato dalle voci istituzionali e dagli analisti, soltanto attraverso la coesione internazionale e il dialogo sarà possibile evitare che il ritorno dei dazi si trasformi in un boomerang economico globale, destinato a frenare la crescita e a penalizzare tutte le economie coinvolte.

Giovanni DI TRAPANI è Ricercatore III Livello presso l’IRISS-CNR, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in “Economia e gestione delle Aziende Pubbliche” presso la Facoltà di Economia dell’Università di Salerno ed è laureato in Economia e Commercio presso la Facoltà di Economia “Federico II” di Napoli.Attualmente in distacco presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri presso la Struttura di supporto del Commissario straordinario del Governo per la bonifica ambientale e rigenerazione urbana del sito di interesse nazionale Bagnoli Coroglio; ha svolto attività di ricerca, a partire dal giugno 2010, nel campo delle Economia e Gestione delle Imprese Assicurative nell’ambito del progetto di ricerca “Innovazione e management dei servizi”; concentrando la propria attività di studio lungo due assi principali: un primo con obiettivi specifici riferiti all’innovazione per lo sviluppo dei servizi assicurativi ed un secondo ascrivibile all’identificazione degli approcci gestionali derivanti dai rischi originati da eventi naturali di tipo catastrofale. Nel recente passato ha svolto, altresì, studi relativi all’individuazione di soluzioni concernenti l’evoluzione dei canali distributivi e del lancio di nuovi servizi market-driven e/o technology-driven. In precedenza, fino al maggio del 2010, ha affrontato le problematiche connesse con il Management del Turismo e dei Beni Culturali, con particolare riferimento alla gestione, fruizione e valorizzazione economica del Patrimonio Culturale. E’ Editor in Chief dalla rivista Journal of Advanced Health Care ed è componente dell’Editorial Board Member in qualità di Reviewer di importanti riviste internazionali, e da dieci anni, è stato Professore a contratto di Statistica Economica e Statistica del Turismo presso l’Università Telematica PEGASO.

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